La vera storia di Anna Politkovskaja. All’estero.

Chi era Anna Politkovskaja, la reporter russa che osò denunciare il regime di Vladimir Putin, gli eccidi della guerra in Cecenia e gli orrori perpetrati da Ramzan Kadyrov?

Per scrivere il mio romanzo Anna Politkovskaja. Reporter per amore edito da Morellini ho studiato la sua vita. Letto i libri che ha scritto e che su di lei sono stati scritti. Ho intervistato le persone che le sono state vicine: la sorella Elena, l’amica Nadia, l’inviata Stella Pende… Poi, intorno alla sua biografia, ho costruito una cornice narrativa che ha reso più accattivante la sua biografia, già però molto avvincente.

A seguire, un capitolo alla volta, ecco la biografia, completa e approfondita, di Anna Politkovskaja, la grande reporter russa che, fino all’ultimo, fu una spina nel fianco per Vladimir Putin, Ramzan Kadyrov e tutti i soldati russi che, in Cecenia, si macchiarono di reati gravissimi.

Questa è la quindicesima puntata. La quattordicesima è: La pazza di Mosca

All’estero

“L’Europa ha un doppio metro nell’intendere i diritti umani. Uno, bello e civile, è per se stessa. L’altro, non troppo pulito, per la Russia. Per la Cecenia, poi, il metro scompare del tutto”

Anna ha un’alternativa. Dal 1990, oltre al passaporto russo ha anche quello americano. È libera di viaggiare. Non solo per tenere lezioni, partecipare a trasmissioni televisive, divulgare le sue inchieste, ritirare premi. È libera anche di lasciarsi alle spalle la Russia. Minacce, pericoli, ostilità, discredito, privazioni e sofferenze. Rifarsi una vita. Ricominciare da zero, in un Paese in cui può realizzare il sogno impossibile in patria: essere rispettata e amata.

Prova ne sia la dolcezza del suo soggiorno parigino, nel maggio del 2000, per esempio.

Anna può rallegrarsi di veder pubblicati i suoi libri. Frequentare persone che la stimano. Non dover temere un agguato a ogni angolo.

L’estero, per lei, rappresenta un’alternativa concreta.

Decine di fondazioni le offrono lavoro in Occidente, ma lei declina ogni invito.

Ha spiegato la figlia Vera: “Altri familiari le dicevano di lasciare perdere e trasferirsi all’estero. Io la capivo. Lei di andare a vivere all’estero non ne voleva neanche parlare. Diceva: ‘questo è il mio Paese e voglio rimanere qui’”.

Anna, a sua volta: “Chi resta ad aspettare, soffre più di chi parte per lavoro. La mia famiglia pensa che tutto questo sia una follia”.

Illustra la collega Tanya Lokshina: “Anna viaggiava molto per lavoro. Per ragioni di sicurezza, è dovuta restare lontana dalla Russia in almeno due occasioni. Ma poi è sempre tornata e ha continuato il suo lavoro. Non ha mai parlato di trasferirsi in un Paese sicuro”.

All’estero, Europa e Stati Uniti, la invitano per tenere conferenze e parlare del suo lavoro. Incontrare capi politici e informatori. Ritirare premi, tanti premi. Oltre dieci, negli anni, conferiti da organizzazioni come Amnesty International e Reporter senza frontiere.

Eppure Anna, alla fine, eserciterà sempre lo spirito critico che è una delle sue cifre stilistiche. Perché gli americani e gli europei spesso condividono il suo sdegno per ciò che accade in Cecenia ma, alla fine, quasi nessuno prende posizione. E cerca, realmente, di cambiare le cose. I politici ancora meno degli altri. E Putin resta più popolare che mai. Amico di Berlusconi, stimato da Blair, ricevuto da Bush.

“L’Europa ha un doppio metro nell’intendere i diritti umani. Uno – distillato, bello, decoroso, civile e comprensibile – è per se stessa. L’altro – non troppo pulito, non troppo distillato – per la Russia, dove la democrazia ha solo un decennio di vita. Per la Cecenia, poi, l’enclave in rivolta, c’è il vuoto, il metro scompare del tutto” si lamenta lei.

A seguire un elenco, esemplificativo e non esaustivo, dei suoi viaggi all’estero.

Il 2001 è un anno intenso e ricco di avvenimenti. Viene pubblicato in lingua inglese il suo libro: A dirty war. A Russian reporter in Chechnya. Riceve il Global award for human rights journalism da Amnesty International e il Golden pen award dell’Unione dei giornalisti russi. Si reca a New York a parlare alle Nazioni Unite. Va a un ricevimento a Londra e riesce a chiedere al premier Tony Blair perché dimostra apprezzamento nei confronti di Putin. “È il mio mestiere” è la risposta. Fa un viaggio in Norvegia, da cui torna felice, raccontando di un “amore a prima vista”.

Ma soprattutto, per un breve periodo, si trasferisce a Vienna. La minaccia è concreta e arriva da Sergei Lapin, ufficiale dell’Omon, unità antiterrorista della polizia russa, che lei ha accusato di crimini contro i civili ceceni. Lapin viene processato e condannato. Ma si sa, si può uscire dalla Russia. Più difficile farsi uscire la Russia dal cuore.

Eppure le occasioni non le sono mancate. In Francia è stata nel 2000, breve ma delizioso soggiorno parigino, già raccontato.

Ci torna due volte nel 2002. In entrambi i casi si tratta di un’esperienza agrodolce. La prima volta ad aprile, in piena campagna elettorale, raggiunge Lionel Jospin, all’epoca primo ministro e candidato socialista. Si trovano nel porto di Lorient, in Bretagna. Jospin è circondato dai giornalisti. Alla fine arriva il turno di Anna, che gli chiede: “Signor ministro, che cosa pensa della guerra in Cecenia? Delle infinite violazioni dei diritti umani?” Il primo ministro è imbarazzato. “Ossignore no… Certe domande no… È una questione complessa. Oggi parlo solo di mare. Mi chieda del mare!”

La seconda è in autunno, subito dopo la strage del teatro Dubrovka. Ne abbiamo già scritto: Anna va in tv, ma ha l’impressione che a nessuno interessi davvero ciò che dice.

Nel 2002 si reca in California. A Ginevra incontra il Comitato delle Nazioni Unite (“i difensori dei diritti umani”). Va a Londra, in un “albergo dignitoso, in una stradina graziosa”, per intervistare un rifugiato.

A febbraio 2003 riceve in Danimarca il Premio per il giornalismo e la democrazia, assegnato dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce).

Nel 2004 torna a Londra. L’occasione è il servizio fotografico per la quarta di copertina del suo libro. Quando la vedono ridere e prendere in giro il fotografo di The Guardian quando lui la mette in posa, tutti rimangono sorpresi. “I fotografi lo fanno sempre”, dice, nel suo inglese esitante. “Convincono le persone a fare cose che normalmente non fanno”.

A ottobre è in California. Tiene una lezione di giornalismo all’università di Santa Monica. È poi attesa a Los Angeles, per ritirare un premio come giornalista coraggiosa dalla International Women in Media Foundation di Beverly Hills, ma deve tornare precipitosamente a Mosca, richiamata dalla crisi della Dubrovka.

Nel 2005 fa molti viaggi. A inizio anno è Stoccolma, dove riceve il premio Olof Palme. Di quell’occasione ci arriva una foto, in cui lei esibisce un’espressione severa, ma anche una giacca fucsia, colore che non siamo abituati a vederle indossare. L’11 settembre, partecipa al Festivaletteratura di Mantova. Il suo incontro, che fa il tutto esaurito al teatro Sociale, è moderato dal giornalista Paolo Flores d’Arcais. A Vienna, a dicembre, in occasione di una conferenza organizzata da Reporter senza frontiere, dichiara: “A volte le persone pagano con la vita l’aver detto ciò che pensano. È anche possibile che qualcuno paghi con la vita il fatto di avermi fornito delle informazioni”.

L’ultimo viaggio all’estero di Anna è a Stoccolma, nel settembre 2006. Tre giorni di libertà in Occidente. Gli ultimi.

 

Racconta Tanya Lokshina: “Due settimane prima dell’omicidio di Anna, io e lei ci siamo incontrate a una conferenza internazionale in Svezia, sul tema del conflitto nel Caucaso. Il primo giorno dell’evento, abbiamo discusso animatamente. Anna ha accusato le organizzazioni per i diritti umani di esserci andate troppo leggere, di aver nascosto i nomi delle vittime e di aver messo a tacere alcuni casi eclatanti di violazioni”.

“È stato fatto per paura. Non paura personale, ma piuttosto paura di causare danni alle vittime, Anya”, sostiene Tanya.

“Ma che dire della verità? Pensi di proteggere le persone, ma stai contribuendo a una cospirazione del silenzio! La tua responsabilità principale è dire la verità e non la raggiungi”, insiste la Politkovskaja.

La vera storia di Anna Politkovskaja. Estero

Di quell’evento rimane una foto. Anna e Tanya sono su un’imbarcazione (la conferenza si svolge su un’isoletta vicino a Stoccolma). Le due sono accanto, sorridono. Anna indossa un maglioncino verde e dei pantaloni chiari, ha una borsa appesa alla spalla. Alza la mano in segno di saluto.

“L’isoletta era tutta erba, rocce e pini. Il posto era così incantevole e tranquillo, ci siamo tutti addolciti dal secondo giorno”.

La sera, il discorso cade su Mosca, la città dove Anna tornerà il giorno seguente.

“Mosca – sospira Anna – per me non significa più del mio appartamento, dell’appartamento dei miei genitori e degli appartamenti dei miei amici. Solo lì sono a casa, solo lì posso ritrovare il mio vecchio io, la vecchia Anna. Il resto della città è diventato volgare, gelido e aspro”.

Conclude Tanya: “Durante il viaggio verso Stoccolma, abbiamo riso insieme e fatto progetti di lavoro per il futuro. Ci siamo lasciate in ottimi rapporti. Anna era diventata una tale icona. A noi sembrava che fosse andata oltre ogni possibile pericolo, che niente le potesse capitare. Era diventata ormai troppo famosa. Se avessimo solo immaginato…”

Sul volo di ritorno, Anna è seduta accanto ad Aleksej Malašenko, analista e commentatore politico russo.

“Anna, la uccideranno” sembra le abbia detto lui.

La sua risposta? “Lo so”.

 

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