Chi era Anna Politkovskaja, la reporter russa che osò denunciare il regime di Vladimir Putin, gli eccidi della guerra in Cecenia e gli orrori perpetrati da Ramzan Kadyrov?
Per scrivere il mio romanzo Anna Politkovskaja. Reporter per amore edito da Morellini ho studiato la sua vita. Letto i libri che ha scritto e che su di lei sono stati scritti. Ho intervistato le persone che le sono state vicine: la sorella Elena, l’amica Nadia, l’inviata Stella Pende… Poi, intorno alla sua biografia, ho costruito una cornice narrativa che ha reso più accattivante la sua biografia, già però molto avvincente.
A seguire, un capitolo alla volta, ecco la biografia, completa e approfondita, di Anna Politkovskaja, la grande reporter russa che, fino all’ultimo, fu una spina nel fianco per Vladimir Putin, Ramzan Kadyrov e tutti i soldati russi che, in Cecenia, si macchiarono di reati gravissimi.
Questa è la quattordicesima puntata. La tredicesima è: Beslan
La pazza di Mosca
“Naturalmente gli articoli che mi presentano come ‘la pazza di Mosca’ non mi fanno piacere. Vivere così è orribile. Vorrei un po’ più di comprensione. Ma la cosa più importante è continuare a fare il mio lavoro, raccontare quello che vedo”
“Mi chiedono la mia opinione, cosa penso su questo e su quello. Sono stanca. Io non scrivo mai pareri, né commenti, né opinioni. Sono una giornalista, non un giudice e nemmeno un poliziotto. Io mi limito a raccontare i fatti, i fatti come stanno. Sembra la cosa più facile, invece qui è la più difficile. È che non fai più un mestiere, ma combatti una guerra. Lotti, ti senti in lotta, e io sono stanca. Non impaurita, scoraggiata. Stanca. Stanca di leggere sui giornali politici che sono una pazza. Politkovskaja la schizofrenica, la paranoica. Sono stanca di spiegare ai miei figli perché chi scrive la verità è un mostro e chi scrive menzogne fa carriera”.
Il destino dei cronisti russi sembra segnato: chi si allinea ha successo, chi fa il proprio mestiere fino in fondo rischia la tranquillità, la reputazione, la vita. Secondo Anna, il 90% dei giornalisti in Russia ha una tessera politica. Ma un giornalista con una tessera politica non è più degno di questo nome: diventa un portavoce. Il clima di quegli anni richiede una scelta di campo: o dentro o fuori. O con Putin o contro Putin. Chi si allinea, dopo cinque-sei anni si conquista la carica di deputato. E gli altri?
“Sono stanca di sentirmi una criminale. Ogni volta che esce un articolo, vengo convocata in procura, fra ladri e delinquenti, che sono lì per rapina, per stupro, per furto… Io per giornalismo. I soliti corridoi, gli uffici, le scrivanie. Entro, mi siedo. La domanda è sempre la stessa: perché ha scritto cose false, chi le ha dato queste informazioni? Segue l’interrogatorio: due, tre ore, quattro. A volte sono stata trattenuta, a volte arrestata. Sono stanca, ho spiegato ai miei figli, perché passo la notte in galera”.
Minacce, intimidazioni, sequestri, tentati omicidi. Il marito che la lascia, la famiglia non sempre d’accordo con le sue scelte. Una vita avvelenata dalla paura. La domanda che sorge spontanea a questo punto è una, semplice nella sua banalità: chi glielo fa fare? Chi o che cosa spinge Anna ad andare avanti?
Proviamo a formulare alcune ipotesi.
Fare soldi.
In Russia, i giornalisti non si arricchiscono (come ormai non succede quasi più da nessuna parte). Lei, oltre tutto, come abbiamo visto, ogni settimana era chiamata dalle autorità a rispondere di denunce a suo carico per diffamazione. Molte erano prive di fondamento, ma altre arrivavano in tribunale e a quel punto lei doveva usare i suoi guadagni per difendersi. Non solo, in tanti ricordano la sua generosità: aiutava profughi e indigenti, spesso di tasca propria. Qualcuno potrebbe obiettare a questo punto (e qualcuno lo ha fatto) che fosse al soldo dei ceceni o dell’Occidente. E potrebbe ipotizzare che parlasse male del governo di Putin e della condotta dell’esercito russo in Cecenia non solo per un suo orientamento ideologico, ma anche per meri interessi economici. Se fosse così, che ne avrebbe fatto dei soldi? Non indossava gioielli, si vestiva con stile ma senza sfarzo, viaggiava praticamente solo per lavoro, non viveva in un appartamento di lusso, aveva un’utilitaria di terza mano. Ha dichiarato sua figlia Vera: “Non le importava niente dei soldi. Se vuoi guadagnare, diceva sorridendo, devi scrivere a comando, scrivere le cose volute dal regime”.
Ecco, quindi, si può dire che il motivo non sia questo.
Avere la stima dei colleghi.
“Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me” dice Anna.
E anche in redazione deve affrontare più di una resistenza. I giovani la consideravano un monumento vivente, ma per qualcuno era troppo “estremista”. Perfino il direttore, in riunione, ogni tanto, le diceva di lasciar perdere gli orrori della Cecenia e scrivere un pezzo un po’ più leggero, per esempio… sul suo cane! Allora lei rispondeva: “In un’altra vita, anch’io farei volentieri articoli sui panini”.
E poi ricordava una memorabile frase di Putin: “La stampa libera è come una bella donna, tutti ci provano e sta a lei non concedersi”.
Ovviamente, oggi come ieri, erano molti i colleghi che dimostravano, anche in modo concreto, il loro supporto ad Anna. E pur tuttavia, anche in questo caso, non abbiamo trovato la motivazione giusta.
Essere amata dai lettori.
Anna aveva i suoi lettori fedeli, certo.
Raccontava: “Qualche volta, quando vado nei negozi, le persone mi si avvicinano e mi dicono cose del tipo ‘Oh Anya, ti sosteniamo così tanto, capiamo cosa stai facendo…’ Ma parlano sempre molto piano, quasi nell’orecchio”.
E tuttavia… “Le sue inchieste avevano provocato un calo della tiratura e innumerevoli disdette dell’abbonamento” l’affermazione di Dmitry Muratov, storico caporedattore della Novaja Gazeta e amico di Anna, è molto eloquente. E dolorosa.
Gli ha fatto eco Vera, figlia di Anna: “Ai russi piacciono le notizie pettinate trasmesse dai primi canali. Nei primi tempi dopo la morte di mia madre, sembrava che fosse cambiato qualcosa. Poi no. La ricorda la comunità dei giornalisti, ma non le persone normali”.
Anna ha addirittura rivelato: “Quello che accade in Cecenia non lo dico più neanche ai miei amici. La società lo rifiuta. Forse non avrei dovuto rivelare ciò che avevo visto. Forse avrei dovuto lasciarvi tranquilli a credere che il governo e l’esercito stavano facendo del loro meglio. Ma continuo a pensare che quando tutti prenderanno atto di ciò che è accaduto in Cecenia, sarà sempre troppo tardi”.
La verità è che a seguirla era una minoranza. Mentre la maggioranza preferiva credere che la Russia fosse un Paese normale e libero. Mentre la maggioranza preferiva (e preferisce) credere che la persona più indicata per guidarla sia e resti Vladimir Putin.
“Vedo tutto, io. Vedo le cose belle e vedo le brutte. Vedo che le persone vogliono cambiare la propria vita per il meglio, ma che non sono in grado di farlo, e che per darsi un contegno continuano a mentire a se stesse, concentrandosi sulle cose positive e facendo finta che le negative non esistano. Per il mio sistema di valori, è la posizione del fungo che si nasconde sotto la foglia. Lo troveranno comunque, è praticamente certo, e se lo mangeranno. Per questo, se si è nati uomini, non bisogna fare i funghi” chiosa Anna.
Altro buco nell’acqua nella ricerca del suo “movente”.
Avere fama e onori all’estero.
Anna, dal 1990, aveva il doppio passaporto: russo e americano. Di questo vantaggio approfitta per girare un po’ il mondo. Non tanto per turismo, quanto per parlare della Cecenia e dei limiti della “democrazia” russa.
I suoi libri sono pubblicati all’estero e lei in tanti Paesi è omaggiata e ricordata, ancora oggi. Ma, anche in questo caso, a scavare un po’ più in profondità, si scopre una verità scomoda.
Nell’autunno del 2002, subito dopo il funerale delle vittime della Dubrovka, Anna viene invitata dal canale France 2 a partecipare al programma di punta del sabato sera, presentato da Thierry Ardisson, una star della tv francese: conduttore, produttore, autore. Così vola qualche ora a Parigi. Uno spezzone di 6 minuti di quell’intervista è disponibile su YouTube. Anna è truccata meglio e più del solito, porta i capelli corti. È di un’eleganza semplice: dolcevita nero a maniche corte, gonnellina grigia, scarpe nere con il cinturino. Appare tesa, ma ferma. Tutti i presenti la ascoltano, sembra con attenzione. Le domande di Ardisson appaiono pertinenti. Si parla della Dubrovka. Anna ha modo di esprimere le sue opinioni sulla cattiva gestione della crisi e le responsabilità del tragico epilogo.
Ma ecco qualche spezzone della sua cronaca: “Per cominciare, fiumi di parole sui ceceni che lottano instancabilmente per ottenere la loro libertà (il cantante li ammira moltissimo, il conduttore pure), così a me rimangono pochissimi minuti. Ma per dire cosa, adesso che finalmente posso esprimermi liberamente? Parlo male, poco e non dico niente di quello che vorrei. Ovviamente è un peccato: se ti danno l’opportunità di esprimerti, devi coglierla al volo. Ma non ci provo neanche, non sono in sintonia con l’ambiente, lì non c’è nessuno che abbia voglia di sentire quello che mi preoccupa davvero”.
A guardare quello spezzone, a parte il contrasto fra la sobrietà di Anna e il trucco un po’ pesante di Ardisson, non si nota nulla di strano. Ma non conta quello che vediamo noi, bensì quello che ha percepito lei. Anna, neanche all’estero, nonostante la considerazione e i premi, si sentiva amata.
Ecco perché non era certo questo a muoverla.
Essere profeta in patria.
Nei Paesi civili, esiste la libertà di stampa. I giornalisti sono supportati, considerati, incoraggiati. In edicola, si trovano in vendita giornali di vari schieramenti politici, anche quelli in opposizione al/ai partito/i in quel momento al governo. Le case editrici pubblicano i libri dei giornalisti.
Nei Paesi civili, i reporter che effettuano inchieste su temi scottanti, toccano interessi sensibili, pestano i piedi a personaggi pericolosi vengono messi sotto scorta.
E poi c’è la Russia.
Secondo l’Organizzazione per la protezione dei giornalisti (Committee to protect journalists), sarebbe uno dei Paesi più pericolosi per i cronisti. Anna sarà la giornalista numero 211 uccisa in Russia dal 1992. E la numero 28 dell’era Putin. In realtà, con l’avvento al potere del tenente colonnello del Kgb, è calato il numero di omicidi di reporter. In compenso sono aumentate la censura e la corruzione. L’informazione “non allineata” in Russia è quasi scomparsa. In sostanza, invece di essere uccisi, i cronisti fuori dal coro vengono licenziati, emarginati, corrotti.
Ma ci sarà sempre qualcuno che non è possibile licenziare, emarginare, corrompere.
“Sono considerata una nemica impossibile da “rieducare”. Non sto scherzando. Qualche tempo fa Vladislav Surkov, viceresponsabile dell’amministrazione presidenziale, ha spiegato che alcuni nemici si possono far ragionare, altri invece sono incorreggibili: con loro il dialogo è impossibile. La politica, secondo Surkov, dev’essere ‘ripulita’ da questi personaggi. Ed è proprio quello che stanno facendo, non solo con me” spiega Anna.
Il regime la classifica come “donna non rieducabile”. Non a caso proprio “Donna non rieducabile” sarà il titolo scelto per uno spettacolo teatrale su di lei. Prosegue Anna: “Eppure tutti i più alti funzionari accettano d’incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un’indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all’aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie. Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto”. Con questa situazione Anna impara a conviverci, anche se non si abitua mai.
Vedremo più avanti che cosa Putin diceva della Politkovskaja. Vediamo ora che cosa lei diceva di lui.
“Mi chiedo spesso se Putin sia un essere umano. O se è solo una gelida statua di ferro. Se è un essere umano, non lo dà certo a vedere. È il tipico tenente colonnello del Kgb sovietico con la forma mentis, angusta, e l’aspetto, scialbo, di chi non è riuscito a diventare colonnello. È sinceramente convinto che l’epoca sovietica sia stata la migliore e che bisognerebbe restaurarla. Era l’epoca in cui il Kgb era al massimo della sua potenza e tutti ne avevano paura, senza neanche sapere bene perché. L’epoca in cui si aveva una doppia vita e una tripla morale. L’epoca in cui il capo aveva una faccia per l’Occidente e una per il suo popolo”.
Putin, all’epoca, conquistò i suo i connazionali. Ma non solo. Nel 2007 il Time lo incorona persona dell’anno, con tanto di copertina con un suo primo piano in cui appare pensoso. Oggi, Vladimir Putin, è ancora alla guida del suo Paese.
Sosteneva Abraham Lincoln: “Puoi ingannare tutti una volta o qualcuno per sempre. Ma non tutti per sempre”. E poi c’è Vladimir Putin.
No, Anna non faceva quello che faceva per compiacere i potenti.
E allora?
“Dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità” è la nota frase di Arthur Conan Doyle, lo scrittore creatore di Sherlock Holmes.
Che cosa motiva Anna, dunque?
Lei è modesta, schiva, regina dell’understatement. Parla sempre e solo di lavoro.
“La mia vita è difficile, certo, ma soprattutto umiliante. A 47 anni non ho più l’età per scontrarmi con l’ostilità e avere il marchio della reietta stampato sulla fronte. Naturalmente gli articoli che mi presentano come la pazza di Mosca non mi fanno piacere. Vivere così è orribile. Vorrei un po’ di comprensione. Ma la cosa più importante è continuare a fare il mio lavoro, raccontare quello che vedo. Io vedo tutto, questo è il mio problema. E l’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede”.
Ma noi sappiamo che c’è dell’altro. E, in parte, questo “altro” lo vede anche lei, quando dice nel corso di un’intervista a The Guardian: “Sì, sono andata oltre. Mettendo da parte il mio ruolo di giornalista, ho imparato cose di cui non sarei mai venuta a conoscenza se fossi rimasta una semplice cronista. Sarei rimasta ferma nella folla, come tutti gli altri”.
Ma il suo impegno le ha permesso di andare ancora più avanti.
Le ingiustizie, le torture, gli stupri, le discriminazioni, gli orrori e gli errori. Della guerra in Cecenia, ma non solo. Tutto ciò, insieme alle storie delle vittime, entrano nelle vene di Anna, come un sangue infetto. Lo dice lei stessa. Dopo, non è più la persona di prima. Non può fare più finta di niente. Tornare alla sua vecchia vita, alle sue abitudini borghesi. Ormai ha imboccato una strada che non prevede vie d’uscita. Anzi, si fa a ogni passo più angusta, dissestata, pericolosa. Ma è anche una strada che dà, alla sua esistenza, un senso più alto. E la porta là dove nella sua vita precedente non ha mai osato arrivare. Dove non pensava di poter arrivare.
Grazie alla Cecenia, alla guerra, all’opposizione a Vladimir Putin, ai suoi reportage, al supporto morale e materiale dato ai parenti delle vittime e ai profughi, Anna esce dal bozzolo e, come una farfalla colorata e bellissima, spicca il suo volo più bello.
Una farfalla può vivere anche un solo giorno, ma quant’è un giorno per quella farfalla?
Un pensiero su “La vera storia di Anna Politkovskaja. La pazza di Mosca”